PIETRA DI FOGLIA DI TASSO
Quando riscopriamo il Thor che abbiamo lasciato alla fine diVendicatori: Fine del gioco, è grazie a una storia condotta sotto le stelle dal suo compagno Korg, ancora interpretato dal regista Taika Waititi. In una manciata di linee e schizzi, ce lo ricorda il trauma del dio asgardiano, simboleggiato da un notevole aumento di peso tanto quanto la scoperta di Fortnite. Questi sono i pochi secondi che Thor: Amore e tuono si degnerà di dare al progresso del suo personaggio prima di farci oscillare con lui nel cuore di un’epica battaglia al fianco dei Guardiani della Galassia.
Mentre il film distribuisce con battute finali e strizza l’occhio un’identità visiva aggiornata, tra Dar l’invincibile e Labirinto, una cosa è chiara: per la terza volta, il personaggio di Thor è stato appena approssimativamente riavviato. Lo abbiamo scoperto nel 2011 girato da Kenneth Branagh, interpretato in dio orgoglioso, trionfalista e ubriacone, mosso da un autocompiacimento che flirta con una lieve debolezza… e nulla è cambiato. Questa è la prima grande trappola della quarta avventura del figlio di Odino: tornare per l’ennesima volta ad un punto di partenza tanto basilare quanto segnato.
Stupido come Rambo 3, mai divertente come Hot Shot 2
Difficile, quindi, essere coinvolti in una storia il cui primo atto consiste nello svelare, ancora una volta, quanto stabilito, per ricominciare da capo. Lo stesso Waititi sembra consapevole del problema mentre corre in ogni scena in quarta marcia. Indipendentemente dal fatto che i personaggi incontrino, scoprano, scoprano o affrontino una nuova minaccia, la sua messa in scena non solo rimane lenta, ma è l’abbandono di ogni drammaturgia che è più sorprendente.
Lo dimostra l’attacco a New Asgard guidato da Gorr. La scena inizia introducendo un concetto piuttosto seducente con un potenziale carpentiere, basato su ombre e sagome da incubo. Un’idea sfruttata in soli due scatti, evacuato dal lungometraggio in meno di 10 secondi. In queste condizioni è impossibile prendere la misura di ciò che si sta svolgendo, apprezzare un’atmosfera o un pezzo di coraggio. Questa osservazione vale per l’intera prima ora del film, che è difficile farci credere seriamente sia nell’intensità della sua minaccia che nella natura dei sentimenti che animano i protagonisti.
La ricetta della torta cosmica di riccio è abbastanza semplice nella vita reale
AMORE E PIOGGIA
E per una buona ragione, dopo tre film che si sono successivamente occupati di Jane Foster (Natalie Portman, più fragola che giardiniera iperattiva) come un secondo coltello smussato e poi un asciugamano abbandonato; il serpente dell’amore assoluto, del vuoto emotivo che avrà lasciato nell’anima appena guarita di un capriccioso dio del tuono, va male. Tanto più male dal momento che la storia tratta la sua storia d’amore con la stessa qualità rapida degli aspetti sopra menzionati. E Korg per gratificarci con un ulteriore montaggio esplicativo che dovrebbe convincerci che Thor ha sempre languito con un amore trascendentale per la sua bellezza.
Questo, in un primo momento, non avrà diritto a una considerazione maggiore rispetto agli altri personaggi. Peggio ancora, buona parte delle sconcertanti inverosimiglianze dello scenario sono legate ad esso. Come è diventata un compendio di Thorine in armatura? Bisognerà accontentarsi di un’ellisse poiché il filmato è del tutto incapace di immaginare le modalità del suo corso. Perché nessuno ha ritenuto opportuno avvertire Thor che il suo ex compagno era salito al rango di dea? Perché Jane è proprio minacciata dall’artefatto che la storia ha – pesantemente – stabilito per salvarla? Tante domande che non troveranno risposta… perché sullo schermo non interessa a tutti.
E non sono le scene d’azione che creeranno una parvenza di immersione nello spettatore. Prima del climax, questo piccolo mondo affronta regolarmente sciami di robot digitali completamente disincarnati, incapaci di rappresentare un pericolo reale, proprio come le orde di artisti di computer grafica che emergono dalla Disney non possono dare vita a questi giochi intercambiabili. E Waititi a orchestrare una rassegnazione filmica in ogni momento.
Anche la fotografia di Barry Baz Idoine, tecnico di alto livello che è stato trovato come regista di seconda unità o assistente alla macchina da presa in produzioni del calibro di Ci sarà del sangue Dove RogueOne, sembra completamente ignorato. La sua immagine è spesso opaca, i suoi colori sbiaditi. Il set è gravemente privo di punch. Un peccato per un blockbuster che ci ha annunciato di voler elettrizzare la nostra memoria delle cazzate degli anni ’80 e ’90. Ma non basta chiedere a un DJ downhill di girare hit hard rock per dare una vera identità a un’epopea cinematografica.
SPECIE PROTETTE
Dopo quasi un’ora di film, Thor: Amore e tuono sembra una delusione assoluta. Al punto da chiedersi con angoscia se l’artista che ci ha offerto Ragnarok, uno dei pochi lungometraggi MCU in grado di abbracciare il DNA dei fumetti per trasporre al meglio la loro vena più cosmica, ha un buon controllo. E poi, Taika Waititi si sveglia. A metà, la nostra troupe, composta da personaggi emaciati, intercambiabili, nessuno dei quali ha alcun impatto sulla trama, arriva in un luogo mitologico elevato, per affrontare Russell Grande Crowe, una specie di Zeus che da bambino sarebbe caduto nella pentola della pozione maligna.
È qui che il regista neozelandese prende i colori. I suoi eroi trovano la distanza tra ironia e sincerità, anche la sua macchina da presa è improvvisamente un po’ preoccupata di allestire spazio, prospettiva, luce. Rimaniamo lontani dall’energia spaziale del precedente Thor, ma basta un duo di capre giganti perché il narratore ricada un po’ in piedi, mentre gradualmente l’emozione mostra la fine delle sue lacrime. E così, Thor: Amore e tuono spicca come il capitolo più paradossale del MCU, e quindi non certo il meno interessante.
Lo scenario finge ancora e ancora di uccidere i suoi personaggi secondari per resuscitarli comunque? La seconda metà del film dispiega per la prima volta una presunta dimensione tragica, che metterà a dura prova gli eroi. Il kolossal non riesce a risolvere i suoi innumerevoli problemi e non dà priorità a nessuno di essi, anche se significa dare la sensazione di non iniziare mai? Tutto ciò che serve è Gorr per apparire perché l’intera cosa prenda improvvisamente vita..
Non tanto grazie alla performance oltraggiosa di Christian Bale quanto alla scrittura del suo personaggio: quella di un uomo leale ma oltraggiato, determinato a liberare l’universo dagli dei che non sono stati all’altezza della loro essenza divina. .
MEZZANOTTE NEL GIARDINO DEL BUONO E PALLIDO
Ed è nel suo ultimo terzo che il film svela il suo progetto: sposare il punto di vista di Gorr, macellaio degli dei. Poiché Thor non è altro che un guscio vuoto, le sue sorelle e i suoi fratelli d’armi sono ridotti a una vignetta e l’amore al centro della storia un incantesimo trasparente, è a lui che le chiavi di questa spiacevole impresa. Ed è a questo prezzo che Waititi riesce ad articolare il suo millefoglie di influenze. Quando prende forma un confronto programmatico, macchina fotografica e fotografia si irritano improvvisamente per immergerci in un mondo in bianco e nero, dove sorgono i mostri, ma anche una formidabile eredità del cinema.
Intorno al nostro spazio vichingo, è improvviso I Nibelunghi, Il settimo sigillo e teatralità surreali che si impadroniscono del blockbuster. Il risultato regge in una sequenza visivamente impressionante, che si misura, senza dover arrossire, con le ambizioni plastiche irrealizzate di un certo Il nordico, che intendeva attingere all’eredità di un intero settore del cinema, senza riuscire a proporne una reinterpretazione organica. E se non ci aspettavamo Waititi a questo livello di creatività o maestria grafica, è chiaro cheha poi riorchestrato con energia comunicativa un intero settore della cultura popolare.
Da quel momento in poi, potrà trovare ciò che ha reso il successo Thor: Ragnarok, ovvero una narrazione disinibita, i cui ammiccamenti non iniziano mai il primo grado di lettura. Ed è buono questo equilibrio, instabile come in luoghi miracolosi, che troviamo di scena in scena. Quando Gorr restituisce a un’assemblea di Asgardiani la prospettiva dei loro racconti d’altri tempi a costo di una piacevole decapitazione, quando un branco di ragazzini si impossessa all’improvviso della figura di Thor, o quando, per la prima volta, del MCU, la possibilità di un sacrificio terribile e ingiusto, siamo sorpresi di trovare speranza nel lungometraggio.
Paradossalmente, Thor: Amore e tuonopiù che un episodio intelligente e soddisfacente, come lo erano le proposte di Waititi o Gunn all’interno degli universi estesi che li accolsero, trova il suo valore in questa osservazione, onesta ma terribile. Gli eroi devitalizzati meritano se non la morte, almeno una severa punizione. Sanzione che il film non riuscirà a imporre, lasciando intravedere la malinconia e la desolazione del suo autore, condannato a fare i giullari del re, piuttosto che a regnare come re dei giullari.