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‘Il miracolo di P. Tinto’, 25 anni invidiando gli Etruschi

Pazzo, pazzo, devi vedere come vive Panchito. Pazzo, sai, la vita è migliore. Ed è così che noi, gli spettatori di Il miracolo di P. Tinto per 25 anni. Perché se c’è una parola che definisce questo film è “follia”. La follia che ha fatto Javier Fesser e così via conserva ancora quel frullato di poesia dadaista, surrealismo, mambo tradizionale. Perché attraverso quella famiglia di ostie e marziani abbiamo appreso che Dio, il Figlio e lo Spirito Santo erano uno e trino. O da cui “il bastone” può farti uscire manikomien. O che, se arriva la lettera rossa dal Vaticano, meglio inventarsi una ricetta croccante o chiudere i ciechi. Che né l’automatico, né la NASA, né l’espresso pendolare del nord parteciperai. Nemmeno se metti la candela Campagnolo.

Ma, ovviamente, tutto questo lo sai solo tu se hai visto il film una o più volte. Puoi vivere come un matto solo se sei entrato in quel linguaggio, in quella miscela di sequenze di colore saturo e bianco e nero dove la tetilla si scioglie con le bollicine della soda (a proposito: che fare un passo quello di litro).

In caso contrario, sarà difficile leggere normalmente questo testo. Né leggerlo né capirlo, come accade ancora quando ci si ritorna Il miracolo di P. Tinto, che forse ancora non lo capisci, senza decifrare cosa diavolo stai guardando, dopo un quarto di secolo. Tè È difficile spiegarlo, riassumerlo, ma anche così, insisti nel raccomandarlo. come fai con Alba, che non è cosa da poco, Vantaggi del viaggio in treno o, passando a qualcosa di più psicotropo, il grande Lebowski.

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E qui devo fermarmi e dare un monito: i miei ricordi di P. Tinto, la mia lode, hanno un motivo speciale.

Vale quindi la pena fare una breve digressione personale.

Ho visto il film in una sala vuota -già chiusa, ovviamente- appena uscito. Sono andato con mio fratello e un amico. Uscendo, mio ​​fratello aveva pensato che fosse un capolavoro. Al mio amico, un truño. Non smette di essere quella polarizzazione parte del suo fascino. Qualche giorno dopo, a causa di una carambola che ho dimenticato, un compagno di classe, al liceo, me la regalò in VHS, quel formato arcaico.

Era una copia per accademici che era riuscito in qualche modo di nascosto. In quell’universo senza piattaforme o download illegali, l’ho rivisto un paio di volte. A casa, sul divano, a cantare i ritornelli e riavvolgere le mie gag preferite. Sono diventato un fan. Nel tipico che incatena battute interne, senza ritornello. Come avrebbe fatto mezzo mondo dopo, già accompagnato da risate collettive, con tag di Quello che sta arrivando O aida. Sempre Ho avuto la complicità di mio fratelloche si arrabbia ancora quando lo ripropongono in tv ei giornali o le riviste non gli danno il massimo delle stelle nella classifica della critica.

Fine del mio caso particolare. Che coinciderà, in fondo, con quella di tante persone.

Perché Il miracolo di P. Tinto Ha guadagnato sostenitori che sono come i tifosi di una squadra di calcio. Uno di quelli che esulta grazie senza curarsi che chi ti sta accanto non sussulti. Di più: anche se li odio. Il film, va notato, ha richiesto la sua macerazione. È stato un traguardo a lungo termine. È germogliata come una stranezza entusiasta e ha reclutato una legione di fan, ma ha lentamente coltivato la sua leggenda. Con quel ridicolo passaparola di chi sbotta “pieno di cinesi-neri” di punto in bianco o di chi a tavola chiede quale sia il pollo e quale il pisello, perché “siamo daltonici”, coronando il frase con una fragorosa risata (e lo stupore degli altri).


Si può anche dire che ha avuto fortuna e sfortuna. Il miracolo di P. Tinto Ha lasciato un anno di una magnifica produzione nazionale. Un anno in cui il cinema spagnolo ha fatto un triplo salto mortale nella modernità, già affiorando un certo fermento underground con i precedenti accenni di Álex de la Iglesia o Daniel Calparsoro. Un anno che potrebbe essere paragonato a questo 2023, così premiato grazie a un catalogo che custodisce, per ridurlo ai titoli più decantati, a Asso Bestie, alcarras, cinque piccoli lupi, maialino, Consacrazione primaverile, manticora O modello 77che sembra addirittura un film minore nella filmografia di Alberto Rodríguez per il livello generale.

In tal senso, anche il 1998 era da incorniciare. Per qualità e per l’arduo compito che alcuni continuano sullo scaffale del duraturo. E non è cosa da poco, come direbbe un filosofo, tra tanti prodotti che vengono inghiottiti in fretta. Guardiamo solo alla competizione di Fesser ai Goya Awards in termini di nuova direzione: c’era Salvador García Ruiz con Mensaka, una storia urbana, con un tocco canaglia e fresca nelle sue umili pretese; c’era Miguel Albaladejo con la prima notte della mia vita, precursore di una costante e notevole affermazione successiva, con grandi basi sociali. E c’era Santiago Segura e il suo primo Torrent: cosa si può aggiungere.

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E nel resto delle categorie, un breve riassunto: ha gareggiato con Amenábar Apri gli occhi (adattato a Hollywood con Cameron Díaz e Tom Cruise), Fernando Trueba con La ragazza dei tuoi occhi (rappresentante in oscar). Garcia con Nonno (il suo tornare in cima da Ricominciare), Medem con amanti del circolo polare (favola intergenerazionale che attira ancora i romantici palicúa) e Fernando León con Quartiere. Ehm.

Manifesto originale de ‘Il miracolo di P. Tinto’.

Niente di quella squadra l’ha fatto deteriorare. Anzi: molti tirati dall’emeroteca e scoperti quel ritmo O Il secdleto di tromba Grazie a P. Tinto. E lo hanno verificato L’immaginario di Fesser era già stato piantato prima. Teneri esseri circolati attraverso quei cortometraggi che vedono la realtà da un’altra battuta, quelli che portano sempre bombolette di butano, i preti guastafeste o la Compagnia Telefonica, “sempre cazzeggiando”.

Quei personaggi senza meta già abitati allora, incorniciati come fumetti. Personaggi testardi, sprovveduti, burberi o innocenti che, pur avendo le loro piccole cose, erano brave persone. Personaggi di altri pianeti dove non c’era molto cibo e non molto tralarí-tralará per generare nuova prole. Personaggi che parlavano una lingua il cui saluto più educato è “Papà, papà”, e che, diciamocelo, sono neri senza doversi vergognare per questo: Neri erano gli uomini di Cro-Magnon, gli egiziani, i siriani oi cantabrici dalla pelle scura che hanno combattuto così duramente per la loro indipendenza.

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Javier Fesser ha evidenziato in una recente proiezione, commemorativa del 25° anniversario, che P. Tinto aveva cambiato la vita dell’intera troupe cinematografica. E non è uno scherzo: lui stesso ha dato il segnale di partenza per altri successi come Sentiero O campioni (in corso di remake americano e con un seguito in lavorazione); Javier Aller, uno dei nani, era prenotato in mezzo alla Gran Vía, mentre ascoltava un pesante fragoroso nel suo walkman. Fino ad allora, Pablo Pinedo aveva combinato il suo lavoro di guardia giurata con alcuni ruoli occasionali. Janfri Topera non ha mai avuto tra le mani un’interpretazione come quella di Usillos, nappe che puliva se era necessario ripulire e che ci insegnava che “quel Brunelleschi” costruì il duomo di Firenze posando il mattone con Mocio. Luis Ciges, anche se sembra incredibile, Non ero mai stato un protagonista. Anche la novantenne Silvia Casanova, la madre Cieca e veterana che all’epoca aveva già 65 anni e aveva una lunga carriera alle spalle, ha affermato che quelle riprese sono state un punto di svolta nella sua carriera.

La cosa più folle di quella follia è che ha attirato alcuni modelli molto vicini. Il nome del regista è in realtà Javier Fesser Pérez de Petinto e, per non aver messo in imbarazzo i loro genitori, ha accettato di cambiare leggermente il cognome e non rivelare le influenze. È così che è arrivato fino ad oggi, incluso nelle liste dei film cult o dei più sottovalutati della storia. E, probabilmente, senza che nessuno della sua famiglia intuisse a chi si riferisse quel miracolo. Aggiungendo più fedeli a questa banda di “froci” che tengono sempre la testa alta, caricano la propria energia e aggiungono zucchero al loro caffè fino a quando non è isola. L’invidia, ovviamente, ha ignorato le civiltà. Perché, si sa, “i romani fanno schifo rispetto agli etruschi!”

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