I BAMBINI NON HANNO TUTTO BENE
Questa è una delle primissime scene di I figli di altre persone. In un’aula immersa nel buio grazie alla proiezione di un film, gli studenti sono annoiati, rilassati o appassionati, mentre Rachel, la loro insegnante, li osserva prima di appassionarsi ai messaggi che illuminano il suo telefono e, di conseguenza, il suo volto. Questo tipo di sequenza abbonda nella storia del cinema, eppure questa semplice apertura mostra un evidente know-how, che crea un’immersione istantanea. E per una buona ragione, il suo montaggio è una vera dimostrazione di forza.
Il senso del tempo è cristallino, tanto il minimo scatto sembra sempre iniziare e poi fermarsi sull’immagine giusta, tanto il ritmo interno delle scene risulta equilibrato. Rebecca Zlotowski fa una professione di fede in dettaglio con il suo nuovo lungometraggio. Non che non lo sia tutto passato attraverso autentiche intenzioni di messa in scenariflessioni profonde nella composizione sia dei piani che nell’architettura del racconto, ma queste esistono solo per rivelarci una miriade di dettagli.
Una nuova famiglia?
Se a volte il diavolo si nasconde lì, qui è il cinema che si svolge lì. In uno sguardo concentrato, nell’erotismo di una silhouette svelata, poi mascherata, nella nebbia di un bagno, quando una mano indugia sui capelli folti di un bambino, ecco che nascono tanti frammenti di umanità. Colpisce anche notare come la regista riutilizzi alcuni effetti stilistici già riscontrati nella sua filmografia, in particolare le dissolvenze in nero, per ripensarne il significato.
Nessuna civetteria qui o forme discorsive. Il lungometraggio mira a raggiungere una qualità organica, che manterrà per tutto il tempo. Sotto le arie aneddotiche (fino all’ultimo atto) della maggior parte dei colpi di scena, al contrario, viene prestata un’immensa cura nella scrittura.
Rachel è sulla quarantina e sa che non potrà più salvarsi chiedendosi se e come diventare madre. Ma la sua nuova storia d’amore potrebbe non lasciare spazio a questo interrogatorio. Sequenza dopo sequenza, lo scenario si interroga su come dare sostanza alle domande dei suoi personaggi. E se ne parliamo non è mai per eludere la grammatica del cinema, anzi. Come se il film cogliesse sempre i suoi personaggi nel bel mezzo di un’azione che sta per avere un senso, osserva acutamente mentre questi uomini e queste donne parlano. Di loro. dei loro figli. E lo spettatore vede con quale umile maestria il regista racconta le proprie carriere.
Come legare, come legare
MATER DOLOROSA
I precedenti film del regista si sono sempre concentrati su donne i cui desideri si scontravano con la concezione del bene o della “vita giusta”, come concettualizzata dalla società circostante. Ambizioni o volontà contrastate, a volte catturate con uno sguardo teorizzato. Lo ricordiamo in Gran Centrale Dove Bella spina, il lavoro sociologico svolto da Zlotowski in ambienti diversi come i subappaltatori nucleari oi circoli di quelli che non erano ancora chiamati rodei urbani, potevano essere seri, ma mancavano comunque di una dimensione organica.
Questo è ciò che scopre qui con felicità e fa esplodere sullo schermo. Forse perché la storia che racconta è in parte più autobiografica. Forse o più sicuramente, perchétrova qui un notevole punto di equilibrio con il suo duo di attori, la cui vicinanza alla sua macchina fotografica, ma anche l’uno all’altro, è letteralmente ovvia. Dopo anni di ruoli hard rock sempre pronti a spaccare la bocca, Roschdy Zem rivela un aspetto infinitamente più tenero, sensibile e seducente, che dà ad ogni sequenza la sensazione di assistere alla reinvenzione di un attore immenso.
Ma è la complicità cristallina tra il regista e Virginie Efira a completare l’impressione. Innanzitutto perché la capacità dell’uno di incarnare i problemi strutturati dalla macchina da presa dell’altro è commoventemente intensa, ma anche perché, coperti dall’ennesimo dramma intimo, estendono il loro soggetto sulle rive di un inaspettato universale.
Se la figura della matrigna è nota nella storia dell’arte, e anche nel cinema, per essere sinonimo di intrighi e tormenti, Rebecca Zlotowski la usa per uno scopo completamente diverso: mettendo in discussione il significato di genitorialità e la figura, quasi mai raffigurata serenamente, della donna nullipara. Come trasmettiamo? Quali sono i legami che ci legano e a quali prove possono essere sottoposti prima di spezzarsi? Non partorire, non è mai essere il genitore di un bambino? Offrendo il suo al nostro sguardo con tanta chiarezza, il regista ha fatto la più bella dichiarazione d’amore che ci sia ai figli degli altri.