DI CHI RIDIAMO?
Christian Clavier e Chantal Lauby tentano una nuova presa di coscienza
Da questa menzogna iniziale scaturisce una retorica ben oliata, secondo la quale si sosterrebbe il cinema popolare, o lo si coglierebbe con un disprezzo moralistico. “Grazie Dio”, il film di Philippe de Chauveron non può mantenere completamente questa fallace equazione. Innanzitutto perché è il seguito di Che diavolo abbiamo fatto? il cui predominio al botteghino ci ricorda che è più al passo con i tempi che al cuore di un espediente eversivo, poi perché il suo budget e il suo cast lo affermano come un investimento sicuro piuttosto che un gesto provocatorio, e infine, perché i suoi nuovi obiettivi rivelano la sua natura profonda.
Una certa idea di convivenza
Nella prima opera, abbiamo appreso che era tempo di liberare la parola razzista, semplicemente perché il razzismo abita tutti, condividere questi pensieri negativi era preferibile che censurarli. Abbiamo potuto vedere, piuttosto disonestamente, nell’equivalenza di questi razzismi, un’equivalenza dei personaggi insomma.
Ma Cos’altro abbiamo fatto a Dio?se riserva un quantitativo di picche per le comunità presenti nella prima parte, ora prende di mira avidamente omosessuali e migranti. Una comunità i cui membri si suicidano sempre più del resto della popolazione e individui che devono alzarsi presto per sostenere che la società opprime chiunque proteggendolo.
Così appare gradualmente la logica del film: redigere una mappa della Francia il cui primo e unico raccoglitore resta il piacere di prendere in giro, svilire e umiliare. Potremmo giudicare il festival dei cliché del capitolo precedente mal coerente ma troppo stupido per essere veramente tossico. L’aggressività e il cinismo ora lasciano il posto alla stupidità.
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fogna ideologica, Cos’altro abbiamo fatto a Dio? è una bella commedia? La risposta sta ancora una volta nella natura dell’oggetto, che fa del suo meglio per inserirsi nella carta estetica pubblicitaria delle storiche catene francesi.
Il tutto è quindi ritmico alla maniera di una serie di schizzi atonali, probabilmente più divertente di un clistere a lavandino, ma anche molto più lungo. Visivamente ammiriamo la capacità dell’immagine e del taglio di stare lontani da qualsiasi forma di stile.
L’unico motivo di soddisfazione un po’ perverso: dopo una prima parte lenta e meccanica, Christian Clavier sembra prendere vita. Con un bagliore preoccupato dietro gli occhi, l’attore si riconnette fugacemente con i voli di De Funesques che lo hanno reso famoso, come se all’improvviso, la putrescenza del progetto e l’avanzata rottura dei dialoghi lo lasciassero solo a capo del progetto.